Zygmunt Bauman ci ha lasciati nel 2017, all’età di 92 anni. Zygmunt Bauman è stato tra i sociologi e filosofi più apprezzati dell’età moderna.
Le sue teorie, spesso dai toni accusatori e non privi di contaminazioni accademiche con le quali allargare gli orizzonti del dibattito, lo hanno reso un punto di riferimento non esclusivamente per la cultura occidentale ma anche per gli economisti di tutto il mondo. Dagli studiosi delle dottrine ai cosiddetti “squali del capitalismo“, tutti si sono imbattuti e magari confrontati con le analisi di Bauman.
Proprio in questi giorni, durante il salto temporale dall’anno della pandemia a quello della – si spera – rinascita come comunità internazionale, le riflessioni di politologi, economisti e accademici sono state, e sono, in gran parte, focalizzate sul nostro modo di vivere. A lungo rivolte a quello stile di vita figlio del consumismo e dell’arrembante progressione tecnologica che non di rado distoglie l’attenzione da quelli che dovrebbero essere i valori della nostra esistenza e del nostro vivere in comune.
Se Aristotele nella sua opera “Politica” sentenziava che l’uomo è un animale sociale e che quindi non può vivere lontano da contesti di società organizzata, questi ultimi dodici mesi hanno invece parzialmente ribaltato questa concezione.
Il distanziamento sociale, misura finalizzata a contenere la diffusione dei contagi da coronavirus, ha proiettato le nostre vite a uno step cui non eravamo pronti. Non tutti almeno. I tre mesi e mezzo della scorsa primavera hanno messo a dura prova il nostro sistema nervoso e la tenuta della nostra società organizzata. I riferimenti alle libertà costituzionali sono diventati pane quotidiano e qualcuno, ignorandoli fino a poche settimane fa, ne ha addirittura scoperto l’esistenza. Potremmo addirittura trovare un aspetto pedagogico in questa situazione perversa. Ma cosa c’entra Bauman con tutto ciò? E cosa c’entra il consumismo, il nostro modo di vivere e l’approccio che la società, in particolar modo quella occidentale, riversa nel suo progredire nel quotidiano?
Per capirlo torniamo al febbraio del 2011, quando il pensatore polacco partecipò al Festival dell’Economia di Trento.
L’intervento che portò all’attenzione dei presenti fu rivolto in gran parte alle trasformazioni della sfera politica e sociale indotti dalla globalizzazione. La riflessione, invece, che volle condividere con gli spettatori fu la seguente: la rimozione delle vecchie linee di demarcazione tra merci e persone, tra proprietà e consumo ci hanno veramente reso più liberi? Di seguito, parte dell’intervento. Leggerlo a distanza di dieci anni, con una pandemia che sta flagellando la società contemporanea e l’economia mondiale, non può che lasciare diversi punti di attenzione e condivisione del pensiero stesso.
“Vogliamo godere di una vita ricca, abbiente, il che ci ha orientati ad assumere come principale indicatore l’acquisto, lo shopping. Pare che tutte le strade che portano alla felicità portino ai negozi. Ciò sottopone il sistema economico, e più in generale il nostro pianeta, ad una pressione enorme. Ciò è disastroso per le nuove generazioni; è evidente che stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, sulle spalle dei nostri figli. Possiamo trovare delle alternative alla crescita della produzione e dei consumi per trovare soddisfazione, in definitiva per essere felici? Ciò è necessario se non vogliamo distruggere il nostro habitat e generare fenomeni catastrofici come le guerre. I livelli attuali di consumo sono già insostenibili dal punto di vista ambientale ed anche economico”.
“L’idea della prosperità al di fuori delle trappole del consumo infinito viene considerata un’idea per pazzi o per rivoluzionari. Jackson dice che ci sono delle alternative: le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate. La maggior parte delle politiche realizzate nel mondo dai governi va esattamente nella direzione opposta. Queste politiche raramente vanno al di là della prossima scadenza elettorale, raramente guardano a ciò che succederà fra 20 o 30 anni. Assistiamo ad un processo di mercificazione e commercializzazione della moralità. I mercati sono abituati ad orientare i bisogni umani, bisogni che in passato non erano soddisfatti dal mercato”.
“Questo è ciò che io indico con l’espressione ‘commercializzazione della moralità’. Il nostro reale bisogno dovrebbe essere prenderci cura dei nostri cari. Credo che tutti noi qui in sala ci sentiamo in colpa perché non riusciamo a trascorrere abbastanza tempo con i nostri cari. 20 anni fa il 60% delle famiglie americane si ritrovava attorno allo stesso tavolo per cenare. 20 anni dopo solo il 20%. Le persone sono più occupate con il loro cellulare, il loro ipad e così via. La nostra vita quotidiana è profondamente cambiata, a causa anche delle tecnologie, che hanno sicuramente prodotto delle cose positive, ma hanno anche creato dei danni collaterali. Se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi. Il confine fra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla famiglia è sfumato. Siamo sempre al lavoro, abbiamo l’ufficio sempre in tasca, non abbiamo scuse. Dobbiamo lavorare a tempo pieno. E più si sale nella scala gerarchica meno tempo per sé si ha. Si è sempre in servizio”.
“Ovviamente i mercati e il consumismo non possono riparare questa situazione; possono però aiutarci a mitigare la nostra cattiva coscienza, e lo fanno spingendoci verso l’acquisto, lo shopping, il mercato. Al tempo stesso disimpariamo altre abilità ‘primarie’. Ad esempio a riconoscere il dolore, il dolore morale, che è molto importante, perché esso è un sintomo, ci aiuta a riconoscere la fragilità dei legami umani. Improvvisamente abbiamo persone che hanno migliaia di amici in internet; ma in passato dicevamo che gli amici si vedono nel momento del bisogno, e questo non è esattamente il caso degli amici che abbiamo in internet. Fino a quando il nostro senso morale verrà mercificato, l’economia crescerà perché messa in moto dai bisogni umani e dai desideri che è chiamata a soddisfare, bisogni e desideri apparentemente ‘buoni’, come dimostrare l’amore per gli altri. I grandi economisti del passato sostenevano che i bisogni sono stabili, e che una volta soddisfatti tali bisogni possiamo fermarci e godere del lavoro fatto”.
“C’era la convinzione che alla fine del percorso avviato con l’inizio della modernizzazione si avrebbe avuto un’economia stabile, in perfetto equilibrio. Successivamente si è presa una strada diversa. Si è inventato il cliente. Si è capito che i beni non hanno solo un valore d’uso, ma anche un valore simbolico, sono degli status symbol. Non si acquistava più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si ‘desidera’. L’obiettivo quindi diventava sviluppare sempre nuovi desideri negli esseri umani. Ma anche i desideri ad un certo punto si scontrano con dei limiti. Così, il limite è stato superato mercificando la moralità: non ci sono limiti all’amore, non ci sono limiti all’affetto che vogliamo dimostrare agli altri. Responsabilità incondizionata, condita da incertezze e ansie: questo è il motore del consumismo odierno, questo l’impulso che ci spinge a fare sempre di più, a produrre sempre di più. Ma ciò non è possibile, le risorse sono sempre limitate. Forse il momento della verità è vicino. Ma possiamo fare qualcosa per rallentarlo: intraprendendo un cammino autenticamente umano, un cammino fatto di reciproca comprensione”.