Accadeva esattamente 75 anni fa. Un traguardo storico, sudato, che ha scosso con vigore la mentalità arcaica di una società profondamente maschilista.
Il 10 marzo del 1946, per la prima volta nella storia della nazione e della Repubblica, le donne hanno avuto accesso al voto in occasione delle nomine dei primi sindaci democraticamente eletti dopo il ventennio fascista. Non solo. La riforma straordinaria prevedeva che potessero partecipare attivamente alla vita politica, candidandosi alla tornata elettorale nel rispetto dell’unico requisito di aver compiuto i 25 anni di età.
Il 2 giugno dello stesso anno, donne e uomini avrebbero votato il più importante dei quesiti, quello che avrebbe deciso la sorte di Monarchia e Repubblica.

E’ questo il momento della svolta, che investe la donna degli stessi diritti dell’uomo, prefigurando uno scenario socio-culturale, perlomeno sulla carta, di parità. Il Decreto Legislativo che riconobbe il diritto di voto femminile risale al 31 gennaio 1945, sotto il governo Bonomi. Quel giorno, in sede di Consiglio dei Ministri, solo tre forze politiche non votarono l’estensione del voto alle donne, i liberali, gli azionisti e i repubblicani.
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La prima donna nominata a cariche pubbliche fu Elena Fischli Dreher, partigiana italiana che ricoprì l’incarico di assessore all’Assistenza e Beneficenza a Milano, dopo la Liberazione.

L’unico divieto di partecipazione al voto fu riservato alle prostitute schedate.
Solo nel 1979 il suffragio femminile sarà riconosciuto dalle Nazioni Unite e sottoscritto da 189 nazioni. Diritto sancito dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna.