Nato ad Avezzano il 4 marzo 1906, Antonio Pitoni è sopravvissuto insieme alla famiglia al terremoto del 13 gennaio 1915. Pochi anni dopo, però, all’età di 12 anni si è ritrovato a prendere il ruolo di capo famiglia a causa della scomparsa del papà Giovanni, morto di “spagnola”.
Sono gli anni della ricostruzione della Marsica piegata da un sisma che aveva raso al suolo la gran parte delle strutture allora esistenti. Antonio Pitoni, quindi, iniziò a lavorare come muratore insieme alle imprese venute da fuori regione, soprattutto dalle terre pugliesi. Presto iniziò a scrivere poesie in lingua italiana, versi che vennero inclusi anche all’interno di alcune antologie. Nel 1937, però, pubblicò “Prose e poesie” in collaborazione con il veneziano Renzo Marcato.
Solo dopo la Seconda guerra mondiale, in una nuova fase di una ricostruzione, Pitoni, completamente da autodidatta, iniziò a comporre in dialetto. Amava molto leggere, nonostante la povertà della famiglia di origine e proprio in dialetto diede il meglio di sé, raccontando piccoli scorci di vita locale e familiare.
Nel costante confronto con un’epoca persa e con i mutamenti quotidiani, la poesia in dialetto di Antonio Pitoni si abbandona al ricordo ed esprime la nostalgia per quello che non c’è più.
La sua poetica incentrata sul terremoto del 1915 è fra le più conosciute. Impossibile non menzionare Je Cinquantenarje, scritta a 50 anni dal sisma che colpì la Marsica, in cui Pitoni ricorda la città di Avezzano piena di brio, vivacità e allegria.
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Quella che si vuole ricordare, però, oggi è la poesia “Mamma mé“, molto importante per la letteratura abruzzese. Pubblicata nel 1965, il componimento fu studiato e imparato anche dai ragazzi delle scuole. Antonio Pitoni si trasforma in un bambino che racconta in prima persona gli avvenimenti di quel tragico 13 gennaio.
E’ una mattina come le altre, di un giorno apparentemente normale. Una mamma invita il figlio ad alzarsi per andare a scuola fino a quando la natura mostra tutta la sua forza. Il bambino riesce a mettersi in salvo, la mamma invece rimane sotto le macerie e morirà la sera, dopo aver trascorso le sue ultime ore a tranquillizzare il suo bambino.
La poesia, che non ha nessun elemento autobiografico, vuole dare voce a tutte quelle famiglie che non riuscirono a sopravvivere, ai figli rimasti orfani, ai genitori che persero la prole e a tutti coloro che rimasero soli. E noi oggi vogliamo rendere loro omaggio attraverso le parole dell’autore marsicano.
Mamma mé
Màmma dicétte: “Arrìzzate ch’é óra,
léste, se fà tarde pé’ lla scòla“.
ì’ sènza fàmme dì più ‘na paròla
me vestìtte, ma, me recòrde ancóra,
m’èva dàte ‘ne mùcciche de pàne
ch’i me stév’a magnà’ sènz’appetìte,
ché me sentìv’ancóra ‘nzunnulìte,
quànte sentèmme, cómme da lontàne,
‘ne rumóre che ppó fù spaventùse
e che fìce trettecà la càsa:
màmma capìtt’e più che persuàsa
fìce ‘ne strìlle pròpia tormentùse.
“Je tarramùte, cùrre, fìjie béjie!”
me fìce la bonàrma benedétta;
ma né’ me vìnn’a témpe. La casétta
crullétte, ch’èva pròpia ‘ne fraggéjie.
I’ ne’ mme fìce gnènte, màmma: tu
te lamentìve sótt’àlla macèra,
me respunnìve, ma…vèrze la séra,
dicìste: Oddìe! e nén parlìste più!