A due anni dalla tragedia del Velino, la cronistoria attraverso gli occhi di chi è rimasto in quota per 28 giorni
Domenica, fuori piove, fa freddo; una chiamata nel tardo pomeriggio da un vecchio amico, “Fabio, mio figlio non è tornato dal Velino”.
Fabio Manzocchi, poliziotto e Capo della Stazione del Soccorso Alpino di Avezzano, vice-sovrintendente allora facente parte della pattuglia di Polizia di Stato – Distaccamento sciatori, interruppe quella strana telefonata con l’adrenalina di chi sostiene il peso dei giorni con tenacia e durezza d’animo. Solo apparenza, lo ammette lui stesso. Eppure quando si vive nel rischio e si offre l’anima al soccorso, non c’è altro modo per uscirne illesi. O quasi.

Di corsa a prendere la macchina, qualche chiamata per organizzare le operazioni di salita. “Io resto a valle, salgono in cinque intorno alle 19. Ci rifacciamo alle poche informazioni che abbiamo. Sappiamo che il gruppo era diretto al Bicchero. Niente di più”, racconta.
Le tracce, nonostante la bufera in corso, emergono dal sentiero. Conducono a Valle Majelama. Arrivarci non è semplice, il fenomeno temporalesco in atto non dà tregua e crea non poche difficoltà ai soccorritori. In quello che è un primo accenno rudimentale del “campo base”, l’attesa è particolarmente nervosa. Si fa la conta ai minuti e si teme per le condizioni impervie trovate in quota dai colleghi. Poi, la chiamata che segnò l’inizio e la fine della storia: “Le tracce si perdono. Qui è venuto giù il mondo“. Manzocchi ascolta quelle sei parole messe in fila con voce tremante e le passa a rassegna più volte nella sua testa. “E’ finita” (ancor prima di cominciare). E’ ciò che ha pensato. Lo ammette quasi con fare arrendevole. Ormai non è più tempo di riflessioni sottaciute, non ha più senso girare intorno alle sensazioni. “Per me da quel momento era finita. Aspettammo che la squadra rientrasse, più o meno intorno alle 4 del mattino. Pensavo a quei ragazzi, all’amico Tonino. Provavo ad immaginare la portata delle valanghe, i colleghi mi avevano riferito di aver visto blocchi di ghiaccio grossi come furgoni“.

La vita del soccorritore è una vita dura. Ogni intervento ha la sua criticità. “Emozioni e disperazione te le tieni celate per te. Non le dai a vedere. Questa volta però mi sono sentito crollare”, confessa Fabio. Il problema del dramma del Velino, sotto il profilo delle operazioni di ricerca, fu la penuria di informazioni a disposizione per la risoluzione dell’indagine. Mancavano gli indizi. In più, elemento non di poco conto, la superficie da scandagliare era oltremodo vasta. “Poche certezze, poche tracce affidabili. Decidemmo di concentrare le ricerche in Valle Majelama, eravamo convinti fossero là. Eppure non potevamo lasciare nulla di intentato”.

La grande macchina operativa partì solo due giorni dopo, martedì 26 gennaio, quando le condizioni meteo, seppur ancora proibitive, consentirono la risalita in cima delle squadre di soccorso. I Vigili del Fuoco fecero un primo tentativo di scarico in quota, ma l’elicottero non riuscì ad atterrare. Poco dopo decollò da Forme un mezzo del 118 con Fabio Manzocchi a bordo. Arrivato sul luogo delle valanghe, a fatica, il pilota riuscì a farlo calare sugli smottamenti.

“Ero da solo. E solo rimasi per almeno un’ora e mezza, a fissare tutto e niente, col gelo che bucava le ossa e mille domande nella testa. Poi mi raggiunse una squadra di colleghi. Avviammo il lavoro, cominciammo a calare le sonde, ma dopo un paio d’ore decisi di tornare giù, non c’erano le condizioni per lavorare in sicurezza. Gli accumuli di neve erano impressionanti, rischiavamo di essere travolti da un momento all’altro. Quella notte non chiusi occhio. Avevo davanti a me quella scena incontaminata che non concedeva segnali e minacciava nuove valanghe. Continuavo a ripetermi ‘ci facciamo male’“.
All’indomani Manzocchi, sulla scorta di quanto visto lassù, diede disposizioni precise sul da farsi. Era necessario disgaggiare la valanga. In occasione del summit in Prefettura, il presidente del Soccorso Alpino, Daniele Perilli, chiese al Prefetto la delibera per la convocazione di un apposito velivolo che li portasse in quota con a bordo dell’esplosivo. In tempi record fu portato sul Velino un Aérospatiale AS 350 Écureuil, di fattura francese. Sull’intero crostone della vallata furono posizionate 24 cariche, la maggior parte sulla sella del Bicchero, dalla quale si staccò l’accumulo che più destava preoccupazione. “Venne giù una valanga enorme, se non fosse stata detonata, da lì a poco ci avrebbe uccisi tutti”.

Una tragedia senza fine: “Non arrivava mai la luce, non finiva mai la neve”
Con la bonifica dell’area di ricerca le missioni di soccorso giornaliere si susseguirono per 25 giorni. All’alba decollavano volontari e direttori di valanga. Si è arrivati a contare oltre 100 tecnici di soccorso e fino a 5 unità cinofile in contemporanea. Coi giorni, alla pressione delle ricerche, al freddo e alle condizioni in quota, si aggiunse il peso del confronto. Quello con le famiglie, con gli amici, con le istituzioni, con la stampa. “Lasciateci lavorare! Lo volevo urlare con tutto il fiato che avevo in corpo. Smettetela di fare gli sciamani, di tirare a indovinare, di fare ragionamenti senza cognizione di causa. Smettetela e basta. – si sfoga Mazzocchi – Ogni minuto che passava era uno schiaffo carico di delusione”.
Quell’inverno non concesse tregua. Sul massiccio del Velino caddero milioni di tonnellate di neve. Nel tendone inaccessibile del campo base si prendevano decisioni. Si studiavano le opzioni, si discuteva. Ci si confrontava dopo notti insonni e ci si ritrovava al tramonto dopo otto ore di ricerche. Sono nate sinergie, feeling operativi, legami umani. “Quando si tornava giù, al pomeriggio, l’unica cosa che mi dava forza era il confronto con chi era dentro quell’incubo con me. Quando, dopo giorni di insuccessi, cominciarono a parlare i palazzi di Governo, io rimasi fedele alla mia missione. E loro con me”.

Si riferisce al responsabile dei Vigili del fuoco, Gabriele Miconi, al Comandante del IX Reggimento Aplini, il Colonnello Gianmarco Laurencig, al presidente del Soccorso Alpino e Speleologico abruzzese, Daniele Perilli, e, non ultimo, al collega Pierluigi Taccone. Quel dialogo costante si strinse attorno ad un laccio emotivo mai tanto solido, fatto di stima reciproca. “Ero fisicamente a pezzi. Vedevo ragazzi giovani mollare dopo un paio di giorni. Le condizioni in cima erano oltre il limite. Andavo avanti per inerzia, ero diventato un automa. Non parlavo più con le famiglie, un soccorritore deve essere asettico. Fuori mi mostravo forte, dentro ero devastato”, ammette Fabio Manzocchi. – Non arrivava mai luce, non finiva mai la neve. Il tarlo batteva nella mia testa, dove sono i nostri ragazzi?”.

“Dove sono i nostri ragazzi?” Dopo un mese il ritrovamento
Venerdì 19 febbraio. “Ho una scatto di quella mattina, prima della partenza. Sono assieme a Paolo Borgonovo e Gabriele Miconi. Quando lo guardo mi pare di cogliere una luce diversa negli occhi, dietro la stanchezza. Arrivammo in cima in 12. Eravamo 6 di noi e altrettanti Carabinieri. Ricordo che ci svestimmo appena atterrati, indossavamo la mezza manica. Il fatto che fosse arrivato già il grande caldo dava l’idea della frustrazione del tempo passato. Ormai la vallata era parte della mia memoria. Notavo ad occhio nudo l’abbassamento del livello della neve, parliamo di circa 5-6 metri in meno rispetto all’inizio delle fasi di ricerca. Appena messi i piedi sulla neve capimmo che eravamo giunti ad una svolta”.

Sotto poco meno di un metro e mezzo di neve ghiacciata riemersero a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro i corpi di Valeria Mella, Gianmauro Frabotta e Tonino Durante. “Li ho tirati fuori uno alla volta. Ho chiuso un cerchio diventato troppo grande. Abbiamo deciso di prolungare le ricerche, nonostante i rischi, pur di riportare a casa anche Gianmarco. Ma dopo due ore di ricerche senza esito chiamai a raccolta i ragazzi e tornammo al campo base”.
La mattina dopo Fabio era di nuovo lassù, per l’ultima volta. Dopo aver recuperato il corpo di Gianmarco, a circa 10 metri di distanza rispetto al punto del ritrovamento delle altre vittime, si è seduto sulla neve e ha pianto. Lo ha fatto nella scena drammatica di una tragedia senza precedenti, nel cuore di quella vallata che non conosce altro se non il cielo. La valle tibetana, come la chiama lui, nascosta al mondo, per quasi un mese era diventata un frigorifero di paure.
“La morte per questi ragazzi è arrivata in un attimo. Ho recuperato e tracciato il gps di Gianmarco, sono stati travolti dalla grande valanga intorno alle 12 e 30 di quella maledetta domenica, nel pieno di una bufera che, con tutta probabilità, ha impedito che si rendessero conto dello smottamento. – Rivela Manzocchi – Dopo i funerali sono crollato, è stata l’esperienza peggiore della mia vita. Nonostante tutto non ho mai pensato di allontanarmi dalla montagna. Al contrario. Il soccorso ce l’ho dentro, certi istinti non li puoi dominare. Rivivo quei 28 giorni continuamente nella mia testa. Dalla prima telefonata all’ultimo volo dalla Valle. E ogni volta è un colpo al cuore”.
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