AVEZZANO. Si conclude con la conferma della condanna anche nel terzo grado di giudizio la vicenda di una cittadina avezzanese che dal proprio profilo social pubblicava contenuti giudicati gravemente diffamatori nei confronti di un’avvocatessa di Avezzano.
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 21.01.2021, ha confermato la condanna alla pena di 4 mesi di reclusione per un’avezzanese difesa dall’avv. Giuseppe Montanara, del Foro di Roma, per il reato di diffamazione aggravata (art. 595 commi I, II e II c.p.), commesso ai danni dell’avv. D.D.A, la quale è stata difesa dall’avv. Crescenzo Presutti.
La diffamazione
A partire dal mese di agosto del 2011, un’impiegata di Avezzano aveva pubblicato sul profilo personale della propria pagina Facebook una sorta di lettera “aperta”, intitolando la pubblicazione con la seguente espressione: “Informazioni di base – Informazioni su L.S.“. Il testo, nel corso dei mesi successivi, veniva a più riprese integrato, rimosso e poi ripubblicato a partire dal 19.11.2011, con un nuovo titolo, “AMICI MIEI ATTO SECONDO”, e continuamente rimaneggiato con sempre maggiori contenuti offensivi, con pubblicazioni fino al 20.02.2012.
Per questi fatti era stata tratta a giudizio dinanzi al Tribunale di Avezzano per rispondere del reato di cui all’art. 595, I, II e III comma ed era stata condannata con sentenza n. 419/2018, poi confermata dalla Corte di Appello di L’Aquila.
La sentenza
La Corte di Cassazione nel confermare la condanna inflitta nei precedenti gradi di giudizio ha condannato l’imputata al pagamento delle spese legali (€ 3.000,00) oltre al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Complessivamente, dovrà sborsare una somma di oltre € 15.000,00 che potrebbe ulteriormente lievitare in caso di ulteriore condanna dinanzi al giudice civile.
Il ricorso dell’imputata, che aveva sempre sostenuto la propria innocenza, è stato respinto. Non ha retto la tesi della mancata indicazione del nominativo della persona offesa e la omessa verifica, da parte degli organi inquirenti, dell’indirizzo IP associabile al profilo avente il nickname dell’imputata e nel reperimento dei cd. file di log, questi ultimi contenenti tempi e orari della connessione.
Il Tribunale e la Corte di Appello di L’Aquila hanno ritenuto che la paternità del messaggio diffamatorio fosse sufficientemente provata ed addebitabile all’imputata e che la destinataria delle offese fosse D.D.A. .
La dichiarazione
“Per i giudici, l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie non è elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione – ha spiegato l’Avvocato Crescenzo Presutti – ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook”.
“Nel processo penale la riconducibilità delle espressioni diffamatorie contenute sul sito Facebook al loro effettivo autore e, pertanto, la rimproverabilità per il reato diffamatorio, non prevede quale elemento essenziale l’identificazione dell’ indirizzo IP e dei file log né la necessità che sia espressamente indicato il nome della persona offesa – ha concluso Presutti – potendosi risalire comunque al destinatario delle offese attraverso le testimonianze di coloro che, leggendo lo scritto offensivo, lo reputino riconducibile alla persona offesa, anche se non nominata”.