Fino a qualche mese fa ogni mattina uscivamo da casa di corsa, un occhio alle previsioni del tempo e l’altro all’ ascensore sempre troppo lento.
Oggi accendiamo in simultanea il computer e il gas sotto la macchinetta del caffè e la giornata comincia. Il lockdown ha cambiato i ritmi di lavoro, siamo sempre di più a lavorare tra le mura domestiche, condividendo spazi e banda con familiari coinquilini e figli in DAD. un ritmo nuovo che ci risparmia uscite mattiniere lunghi tragitti, ma ci costringe a cambiare abitudini e rischia di sconfinare nel nostro privato.
Il COVID-19 è stato un catalizzatore che ha spinto sull’acceleratore di una metamorfosi in atto. Che riguarda il lavoro, ma anche una diversa organizzazione del tempo e degli spazi. Uno schema organizzativo che secondo i dati Istat ha interessato in particolare nuclei familiari con figli minori ed entrambi i genitori, o l’unico genitore, occupati: quasi tre milioni di famiglie.
Viviamo in una condizione di sovraccarico informativo e di iperconnessione. Un aumento dello stress dovuto alla mancanza di definizione di limiti e confini nella propria work life balance, dove non si stacca veramente mai dal lavoro perché siamo sempre connessi, raggiungibili, con la pretesa che le risposte agli stimoli che ci mandano siano immediate o quasi.
Così ci si trova isolati, in sovraccarico cognitivo e con la sensazione di non riuscire a stabilire dei limiti, e non è detto che questo comporti un aumento di produttività. Per lavorare meglio bisogna imparare a staccare ma anche a fare delle pause. Quelle che la vita d’ufficio offre automaticamente, tra una riunione e l’altra o nei momenti di incontro informale che spesso permettevano utili scambi di idee e che oggi sono scomparsi.
La nota piattaforma di videoconferenze non è certo l’unica responsabile, ma ormai tutti chiamano “zoom fatigue” l’insieme di disturbi generati da un eccesso di riunioni online. Un problema che secondo un articolo apparso su psichiatriche Times riguarderebbe oltre 300 milioni di utenti quotidiani di zoom, e che va oltre la generale situazione di stress in cui tutti viviamo in questi mesi.

La nostra specie si è evoluta sperimentando interazioni fisiche che si fondano su tutto il repertorio di comunicazione verbale, non verbale e paraverbale. Elementi che la comunicazione a distanza annulla o quantomeno altera: la mancanza di informazioni di contesto, espressioni facciali o gesti impercettibili ci costringe a fare uno sforzo cognitivo per dialogare con i nostri interlocutori.
E se nelle riunioni in presenza spostiamo lo sguardo da uno all’altro dei presenti, ora ci troviamo davanti a una fila di facce – tra cui la nostra, che è un indubbio elemento di distrazione – ma al tempo stesso non riusciamo a guardare negli occhi nostri interlocutori, particolarmente se numerosi, perché dobbiamo rivolgere lo sguardo alla telecamera.
Tutte modalità che compromettono i delicati meccanismi di gratificazione legati alla maggior parte delle interazioni sociali. A questo si aggiunge l’ansia creata da questo tipo di interazioni e non è colpa solo delle connessioni instabili o della necessità di condividere schermi e documenti: anche nelle condizioni migliori la connessione produce un leggero ritardo tra domanda e risposta che secondo alcuni studi genera sfiducia e altre reazioni negative.
Senza dimenticare i problemi causati dal trascorrere troppe ore seduti, non sempre in posizione corretta, e dalla luce azzurrina dei computer che oltre ad affaticare gli occhi ha effetti negativi sul ritmo sonno veglia. In attesa che siano approntate sale da riunione virtuale in grado di offrire un’esperienza più simile a quella reale – ci sono già prototipi allo studio – gli esperti consigliano di non eccedere con le videoconferenze di non utilizzare il video durante le riunioni a meno che non si stia parlando, ricordandosi di fare qualche pausa per muoversi a riposare gli occhi tra un incontro virtuale e l’altro.